lunedì 28 novembre 2011

ASTRATTOCONCRETO il MACA Acri.


Vincenzo Agnetti

Protagonista delle ricerche più radicali nel campo delle arti visive, Agnetti può essere considerato il maggior esponente italiano dell’arte concettuale, che ha contraddistinto almeno un decennio di cultura visiva internazionale.

Dopo una brevissima stagione pittorica di segno informale, nel 1960 Agnetti dà avvio ad un’intensa attività di scrittore e teorico militante nell’arte contemporanea, a sostegno di artisti come Piero Manzoni ed Enrico Castellani, e di gruppi come Azimuth, attivi nella Milano dei primi anni sessanta.
In seguito, alla fine del decennio, Agnetti prosegue la propria riflessione teorica sull’arte, la sua funzione e i suoi linguaggi, spostando però l’attenzione sulla produzione artistica vera e propria.


Le opere di Agnetti sono proposizioni di ordine mentale. Si tratta spesso di un’auto-analisi giocata sul confronto fra l’immagine e la parola, che mira ad una verifica del funzionamento dei linguaggi, quello visivo e quello verbale. I numerosi inviti a esposizioni internazionali come Documenta a Kassel, nel 1972, e a diverse edizioni della Biennale di Venezia, sancirono per Agnetti un riconoscimento che lo pose a fianco di artisti impegnati nella “decostruzione”dei linguaggi artistici, quali John Baldessari o Joseph Kosuth negli Stati Uniti, o come Daniel Buren o Victor Burgin, in Europa.




La morte all’età di cinquantacinque anni ha impedito ad Agnetti di maturare la sua poetica, che negli ultimi anni di vita stava tornando a pratiche manuali, mutuate però dal linguaggio fotografico.



GLI ANNI SESSANTA: LE RICERCHE SUL LINGUAGGIO

L’inizio della fase principale della ricerca di Agnetti è databile dal 1967, anno del suo ritorno in Italia dopo un periodo negli Stati Uniti e in Argentina. L’obiettivo dell’artista è quello di scandagliare le strutture del linguaggio iconico e verbale.

Le sue prime opere si intitolano “Permutabili”. Sono pannelli in legno provvisti di cursori, che col loro scorrere mutano il senso delle parole inscritte sulle superfici.
A queste opere segue il ciclo intitolato “Oltre il linguaggio”, fotografie su tela emulsionata dove i caratteri tipografici delle parole trascritte assumono quasi un sapore pittorico. Discendono dalla “Macchina drogata” del 1968, uno dei primi capisaldi nella ricerca dell’artista.
Una vera macchina calcolatrice viene esposta, con la possibilità di essere usata dal pubblico, ma invece di calcoli numerici essa stamperà sul rotolo di carta solo lettere dell’alfabeto. Ingrandite ed emulsionate su tela, molte di queste “frasi” divengono appunto opere “oltre il linguaggio”…



Dal 1969 al 1971 Agnetti produce lavori su plexiglas (“Apocalisse”, “Entropia”) e la celebre serie dei “Libri dimenticati a memoria” che nella figura del paradosso (scritte sovrapposte, libri “svuotati” delle pagine) parlano del nostro rapporto con le parole e le cose che queste designano.

I quattro affreschi strappati di “XIV-XX secolo”, 1970, con le insegne degli Evangelisti, documentano l’interesse di Agnetti per il recupero delle icone del passato, evidente anche nel dittico “1870-1974. Pittore dell’Ottocento”, del 1974, anch’esso esposto.




I PRIMI ANNI SETTANTA: DALLE “AZIONI VOCALI” ALL’”AMLETO POLITICO”

L’opera più nota di Agnetti è rappresentata dai due cicli tematici degli “Assiomi” e dei cosiddetti “Feltri”.
I primi si presentano come quadrati o più raramente cerchi in bachelite, quindi come monocromi neri che nel materiale richiamano le lavagne, solcati da segni geometrici e da scritte bianchi. Le scritte sono riferite a concetti astratti quali il tempo e lo spazio e si pongono appunto come assiomi, come asserzioni enigmatiche.
I “Feltri” sono frasi stampate su superfici di feltro colorato. Specie di ritratti realizzati con le parole, hanno un sapore più esistenziale e autobiografico, anche se mantengono l’ermetismo degli “Assiomi”.

Nelle opere degli anni seguenti Agnetti comincia a utilizzare la propria immagine: il polittico fotografico “Gli eventi precipitano”, le due “Autotelefonate”, autoritratti fotografici su pannelli, e “In allegato vi trasmetto”, installazione del 1973, in cui tre fotografie e un registratore documentano un’azione vocale compiuta dall’artista

Il 1973 è anche l’anno dell’opera “Arcaico, Classico, Numerato”, e dei “Telegrammi”, opera postale che veicola in poche frasi le meditazioni dell’artista sul linguaggio e il suo intervento poetico sul tempo.

Ma di quell’anno è soprattutto il “Progetto per un Amleto politico”, una delle opere più importanti di Vincenzo Agnetti.
L’Amleto è una vera e propria installazione nello spazio: da un podio al centro di una sala, si sente la voce registrata dell’artista, mentre alle pareti si trovano un centinaio di riproduzioni fotografiche di bandiere. La voce però non emette parole, bensì ripete continuamente la serie numerica da uno a dieci, mutando però sempre di intonazione. Secondo Agnetti, il linguaggio verbale è troppo ambiguo, troppo sviante per comunicare il nucleo di verità che solo l’intensità emotiva racchiude.
L’opera, insieme a “In allegato vi trasmetto…”, introduce il tema della numerazione intesa come linguaggio universale, nel quale, tra utopia e paradosso, si possono tradurre tutte le parole di tutte le lingue del mondo
Lo stesso tema torna nei pannelli fotografici di “Frammento di Tavola di Dario”, del 1973, “Architettura tradotta per tutti i popoli” del 1974.



I SECONDI ANNI SETTANTA

La mostra presenta inoltre importanti opere degli anni seguenti, note alla critica ma raramente esposte, come è il caso di “Elisabetta d’Inghilterra”, polittico fotografico fino ad oggi conservato presso una collezione americana, e di altre che invece si sono imposte all’attenzione del mondo dell’arte, come le fotografie del “Progetto Panteistico” e le bacheliti dei “Sei Villaggi Differenti” (1974).



Al 1980 risale l’installazione “Surplace”, presentata alla Biennale di Venezia di quell’anno. Si tratta di un lavoro scultoreo originato da una ricerca fotografica. L’opera compiuta prevede l’esposizione di quattro sculture nello spazio, attorniate dalle quattro relative fotografie che fanno da didascalia ad un lavoro giocato sul concetto di energia dinamica, legata alla vita quotidiana, che destruttura il linguaggio tradizionale della scultura.




L’ultimo ciclo di opere, “foto-graffie”, consiste in disegni figurativi, tracciati interamente a mano con la pratica dell’incisione a punta metallica su carta fotografica, come in una sorta di riappropriazione della manualità e dell’unicità del gesto nel cuore stesso degli strumenti della riproduzione e moltiplicazione. Alcune foto-graffie di piccole dimensioni preludono in mostra alle grandissime superfici de “Le quattro stagioni” (1980) provenienti dalle Civiche Raccolte d’Arte di Milano; erano state esposte nello stesso anno al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano pochi mesi prima della morte dell’artista.