sabato 13 novembre 2010

L'arte cinetica? Gianni Colombo.


Dalle “Strutturazioni pulsanti” alle “Topoestesie”: si apre domani al Castello la retrospettiva di uno dei protagonisti della ricerca Anni 60

ROCCO MOLITERNI
RIVOLI
Costruire l’opera d’arte visiva, come viene costruito un test, lasciando alle sue componenti tutta l’ambiguità percettiva sufficiente a impedire all’osservatore di avviarsi verso una sola e sicura interpretazione»: in questa frase di Gianni Colombo c’è la chiave per capire una ricerca che l’ha portato dalle prime sculture, alla Arp o alla Miró, in cui potevi toccare e manipolare l’opera, fino ai grandi ambienti spaziali, in cui devi stare attento a dove metti i piedi, perché il gradino non è quello che ti aspetti. A riassumere e ripercorrere questa ricerca che ha segnato l’arte italiana del secondo dopoguerra, è la mostra che si apre domani nella Manica Lunga del Castello di Rivoli a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Museo, e Marco Scotini, dell’Archivio Colombo.

«La dimensione ludica, il gioco e la leggerezza erano le forme comunicative preferite da Colombo - spiega la Christov-Bakargiev - espressioni di un antiintellettualismo di matrice Dada che nel XX secolo ha spesso accompagnato proprio le persone più consapevoli dei disastri provocati dall’eccesso di seriosità». Colombo, nato a Milano nel ‘37, si diploma all’Accademia di Brera con una tesi su Max Ernst (è già un’opera d’arte come si può vedere in mostra) e il surrealismo è una delle sue fonti di riferimento, così come alcune teorie del futurismo, attraverso la rielaborazione di Fontana, che proprio in quegli anni domina con il suo Spazialismo la fervente scena artistica milanese. Una scena artistica dove gli scambi e gli incontri tra artisti, musicisti, designer (fra questi il fratello di Colombo, Joe, i due spesso lavorano insieme) e fotografi avvengono tanto in gallerie di tendenza come Azimut, quanto al mitico bar Giamaica. Nel 1959 nasce il gruppo T di cui Colombo fa parte con Anceschi de Vecchi, Boriani e più tardi la Varisco, proprio quel gruppo proporrà un’arte «cinetica, programmata e ottica».

Sono gli anni dell’euforia che porterà al boom, dell’ottimismo nei confronti della scienza e dell’industria, dell’utopia riformista di Olivetti, e nei lavori di Colombo si respira questo clima. C’è l’idea molto democratica che il visitatore debba diventare parte integrante dell’opera stessa (un «tecnico» lo definisce Colombo), sia che semplicemente la possa toccare (Le superfici in variazione,1959, Rotoplastik, 1960, Rilievi intermutabili, 1974) sia che la possa percorrere e “abitare”, (Strutturazione cinevisuale, 1967, Spazio elastico, 1967, Bariestesia, 1974-1975, Topoestesia, 1977). Un’arte fatta di «opere aperte», secondo la definizione di Umberto Eco, che nel 1962 curerà e scriverà anche un saggio per una mostra itinerante di Colombo & C.

Oggi la definiremmo «arte interattiva». Un’interazione tra opera e spettatore che però non è all’insegna della fredda razionalità, anzi Colombo cerca di spiazzarti, di farti viaggiare alla frontiera fra conscio e inconscio. A differenza dei surrealisti «la relazione che Colombo indagava - dice ancora la curatrice - non era quella del sogno vero e proprio, nè della veglia, ma dello spazio ambiguo e incerto al limite tra questi, come fosse una universo ancora notturno dell’alba dove il sogno continua quando siamo già un po’ svegli». E questi passaggi dal buio alla luce li ritroviamo in un’opera di grande poesia come 0-220 volt, con grandi e piccoli quadrati sovrapposti dove è la luce a disegnare l’opera con il variare della sua intensità. Una luce che potremmo definire sensuale perché la sensualità è una delle caratteristiche di opere come le Strutturazioni pulsanti, dove quadrati di polistirolo si muovono impercettibilmente, quasi al ritmo di un respiro, suscitando nello spettatore spiazzamento. Lo stesso che si prova entrando nelle grandi Topoestesie, non a caso memori della casa «pazza» del celebre cortometraggio di Buster Keaton. Luoghi che oggi sembrano ispirare artisti come Bartolini, a dimostrare quanto la ricerca di Colombo (scomparso nel ‘93) sia ancora attuale.


Fino al 10 gennaio
La mostra «Gianni Colombo», a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marco Scotini, si inaugura martedì 16 settembre al Museo del Castello di Rivoli e sarà visibile fino al 10 gennaio 2010. Martedì alle 17 ci sarà una tavola rotonda con i curatori e Marcella Beccaria, Guy Brett e Francesco Poli. Alle 19 un concerto con le musiche preferite di Gianni Colombo, con dj set Sergio Ricciardone. Accompagna la mostra una rassegna dei film preferiti di Colombo, a cura di Massimiliano e Gianluca De Serio. Sabato 26 settembre a mezzanotte visita guidata alla mostra con Achille Bonito Oliva. Info. www.castellodirivoli.org.

Apertura del percorso del Tempio di Venere e Roma nel Foro romano


Il Commissario delegato per le aree archeologiche di Roma e di Ostia antica Roberto Cecchi, secondo un programma concordato con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, prosegue le operazioni finalizzate alla messa in sicurezza dei monumenti in custodia e all’ampliamento degli itinerari di visita offerti ai visitatori.

È questa la volta del tempio di Venere e Roma che si affaccia sulla valle del Colosseo dall’imponente basamento voluto dall’imperatore Adriano che dedicò l’edificio alla Città Eterna e alla dea Venere, madre di Enea suo fondatore. Costruito sulle pendici della Velia a partire dal 121 d.C., sottende una chiara valenza politica creando la sintesi tra Venere, cui è attribuita una dimensione cosmica, e Roma, rappresentata in forma divinizzata, ma anche la sintesi tra il passato e il futuro dell’Urbe, tra Oriente e Occidente, tra Aeternitas e Fortuna.


La storia
Il tempio, inaugurato nel 141 d.C. dal successore di Adriano, l’imperatore Antonino Pio, fu eretto nel luogo in cui sorgeva in precedenza il vestibolo della Domus Aurea, di cui si mantenne l’orientamento e si riutilizzarono in parte le fondazioni. Il tempio, di forme ellenizzanti, si innalzava al centro del grande podio artificiale: questo era affiancato sui lati lunghi da un doppio portico di colonne in granito grigio, su cui si aprivano al centro i due propilei, mentre sui lati corti era collegato con delle scalinate alla piazza del Colosseo e al Foro. Le colonne ancor oggi visibili furono rialzate durante i restauri degli anni trenta.
Il tempio vero e proprio si presentava come un diptero: all’interno due celle orientate in senso opposto, una per ciascuna divinità, e precedute da un vestibolo. Del peristilio di colonne corinzie non rimane nulla, e della cella verso il Colosseo – quella dedicata a Venere – resta solo l’abside. L’altra abside, invece, fu inglobata nell’ex convento di Santa Francesca Romana. Quanto è giunto sino ad oggi risale, però, in gran parte, al restauro voluto da Massenzio nel 307 d.C. in seguito all’incendio che distrusse tutta la parte centrale del Foro. A questo restauro si devono le celle absidali in laterizio con copertura a volte cassettonate, gli stucchi dei cassettoni (ricopiati anche dal Palladio), le colonne in porfido lungo le pareti e il pavimento in lastre marmoree.
L’abbandono dell’edificio e la seguente spoliazione delle strutture hanno inizio nel VII secolo, quando l’imperatore Eraclio concede a papa Onorio (625-638) le tegole di ottone della copertura del tetto per usarle a San Pietro.
I primi scavi sistematici dell’area vengono realizzati durante l’amministrazione francese della città, tra il 1810 e il 1817 e cominciano le demolizioni delle strutture medievali.


Il culto di Venere e Roma
Come testimonia un testo dello scrittore greco Ateneo (II-III secolo d.C.), la fondazione del culto di Venere e Roma e il voto del tempio alle due divinità da parte dell’imperatore Adriano (117-138 d.C.) avvengono in concomitanza con la riorganizzazione della festa dei Parilia: in base a una moneta l’evento può essere datato con precisione al 21 aprile del 121 d.C.. La costruzione del tempio (locatio) ha inizio subito dopo. Le Palilia o Parilia erano un’antichissima festa pastorale della religione romana che si celebrava il 21 aprile in onore del numen Pale. A partire dal 121 d.C. si iniziò a festeggiare nella stessa data anche il giorno della fondazione di Roma, ovvero la festività di Romaia.


Il progetto di sistemazione dell’area monumentale

All’intervento del Commissario delegato si devono la manutenzione straordinaria di tutta l’area del tempio e le sistemazioni funzionali per l’apertura al pubblico dell’area monumentale. Le risorse impegnate ammontano a 264.034,80 euro.
Negli anni ottanta del secolo scorso le due metà del tempio, rimaste a lungo divise l’una dall’altra, sono gestite da due diverse amministrazioni (il Comune di Roma amministrava la cella di Venere e il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali quella di Roma). In seguito a un accordo, vengono riunificate nel complesso monumentale dell’area archeologica del Foro Romano-Palatino, ma di fatto i segni della separazione si rintracciano non solo nelle barriere di divisione, ma anche e soprattutto nella diversità delle funzioni. La cella di Roma fruita come quinta dell’Antiquario Forense, mentre quella di Venere resta un giardino urbano, anche se ormai chiuso alla città.
Le finalità che il nuovo progetto di sistemazione dell’area e di restauro delle strutture ha perseguito sono il superamento di queste differenze e la ricomposizione dei “segni” dell’architettura originaria, per rendere nuovamente palese l’antica grandiosità e restituire l’immagine unitaria del tempio. La nuova sistemazione dell’area ha operato un profondo cambiamento sia dell’immagine sia della funzione dello spazio del tempio rispetto a quelle realizzate nel 1935. Fino agli anni ottanta l’area era occupata da una strada, asfaltata, accessibile perfino alle auto, che conduceva al giardino: piazza di Venere e Roma. Oggi il tempio non è più una piazza urbana ed è tornato a far parte del contesto archeologico cui apparteneva e all’asfalto si è sostituito il manto erboso. Gli interventi, diffusi sulla quasi totalità delle strutture, hanno il solo scopo di ripristinare la continuità e l’omogeneità strutturale delle murature fratturate e lesionate, di contrastare i fenomeni di rotazione provocati dall’asportazione degli appoggi e di permettere il corretto scorrimento e smaltimento dell’acqua, principale responsabile del degrado. Le opere di restauro più impegnative hanno interessato le semicalotte delle absidi e le alte mura del lato sud. I monitoraggi indicavano infatti che la profonda lesione creatasi tra le semicalotte, sulla sommità, progrediva lenta ma inesorabile e che al tempo stesso le infiltrazioni d’acqua all’interno della lesione provocavano il degrado della decorazione in stucco. Il lato sud delle celle si conservava meglio degli altri – arriva a un’altezza di circa m 20 – ma i blocchi della fondazione, per gran parte asportati, avevano dato luogo a un fenomeno di rotazione che, data l’altezza, metteva a rischio la stabilità delle strutture. L’equilibrio era stato messo in crisi anche dal crollo delle scale che in antico occupavano la zona dell’incrocio delle absidi, e che costituivano un valido elemento di irrigidimento funzionale al sistema costruttivo. Il segno di sofferenza delle strutture era visibilmente denunciato dalle lesioni, profonde quanto diffuse, visibili sulle murature. Per il consolidamento è stato realizzato, alla base delle murature, un sistema continuo di contrafforti, collegati da solai armati, che si sostituisce alla fondazione mancante e dà nuovamente l’appoggio adeguato alle alte strutture murarie annullando la rotazione in atto. La parziale ricostruzione del muro perimetrale ha in questo caso una doppia funzione, sia statica sia d’immagine. Le murature delle absidi sono state consolidate con iniezioni di malta, spesso armate, che servono a ripristinare la continuità muraria interrotta dalle lesioni.


Informazioni tecniche :

Orari di visita
Dalle 8.30 fino a un’ora prima del tramonto
Chiuso 1 gennaio, 25 dicembre
La biglietteria chiude un'ora prima
Ingresso
I visitatori entreranno dai due ingressi dell’area archeologica centrale; via dei Fori Imperiali e via di San Gregorio. L’accesso al Tempio di Venere e Roma, una volta all’interno dell’area di visita, si trova a fianco dell’Arco di Tito.
Biglietti
Intero € 12,00; ridotto € 7.50
Il biglietto consente l’accesso alle aree del Foro romano, del Palatino e del Colosseo
Informazioni e visite guidate
tel. 39.06.39967700
www.pierreci.it


Diego Rivera_trasalimenti

I suoi murales dipinti per più di quarant'anni con una foga e una dedizione totale tanto da rimanere incollato sui ponteggi anche per giorni, mangiando e dormendoci sopra, raccontano delle vicende del suo popolo, dei peones, della loro schiavitù passando per le antiche civiltà (dalla azteca alla zapoteca, alla totonaca, huasteca) avvalendosi di uno stile descrittivo-folkloristico, coniugando il vecchio e il nuovo, il moderno e l'antico con personaggi dai tratti sicuri, severi che vanno a formare gruppi compatti di forme, di volumi, di colore. Riporta nei murales anche le tre figure fondamentali della rivoluzione messicana Hidalgo, Juarez, Zapata, ma la sua fede politica (si autodimetterà dal partito nel '29 per coerenza non potendo lavorare per i borghesi e rimanere al contempo comunista) lo porta anche a disegnare un Marx e un Lenin ed è proprio per quest'ultima figura da lui rappresentata in un'opera al Rockefeller Center di New York (1933) che viene licenziato e l'opera distrutta. Si reca più volte negli Stati Uniti anche insieme a Frida nel '31 è a San Francisco poi a New York, a Detroit. "Autoritratto" (1954, 26x30 cm) non ci mostra più il Rivera dongiovanni, il seduttore, quanto un uomo ormai sofferente forse della morte di Frida o per via del suo male inguaribile, non è dato saperlo ma certo non è più quell'uomo brillante pieno di fascino che attirava le donne le incantava con il suo modo di fare ma piuttosto un uomo maturo arrivato alla fine di una vita colma di eventi.

Giorgio De Marchis_trasalimenti

Giorgio de Marchis Bonanni d'Ocre (L'Aquila 1930 - Roma 2009) recentemente scomparso, noto per i suoi studi sull'arte italiana degli anni Sessanta e Settanta,dopo gli studi liceali a L'Aquila si laurea in filologia classica a Pisa, perfezionandosi a Parigi e Bruxelles, collaboratore di numerose riviste tra cui Art International, Colloquio, L'Espresso e Il Giornale dell'Arte, direttore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, giunge nel 1964 per concorso alla Galleria nazionale d'arte moderna di Roma a cui dedicherà l'intero cursus da ispettore a Soprintendente (1980-81), Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Tokio (1974-1993), Ispettore centrale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (1992-1994) . Negli ultimi anni era spesso a L'Aquila dove presiedeva la Fondazione a lui intitolata e da lui fondata che conserva documenti per l'arte contemporanea.
Ha pubblicato, tra l'altro, monografie su Ettore Colla (1971), Giulio Turcato (1971), Giacomo Balla (1977), il saggio per Einaudi L'arte in Italia dopo la seconda guerra mondiale ne La Storia dell'arte italiana (1982), per Mondadori il volume Scusi, ma è arte questa? (1991).
Più recentemente, per Sellerio, Il poeta, il ragazzo e la ragazza (1994) e Dell'abitare (1998), per Einaudi Il pittore, l'umanista e il cagnolino (2002), per Allemandi & C. Album di viaggio in quarant'anni di arte italiana: 1960 - 2000 (2005) per Textus La decorazione della Sala Eden. L'Aquila 1931 - 1933 (2005) per Electa Futurismo da ripensare (2007) contributo sulle opere originali di Giacomo Balla che ribadisce ancora una volta l'approcio filologico quale unica possibile modalità di comprensione dell'avanguardia e dell'arte contemporanea.
In ultimo un piccolo libro fuori commercio dedicato alla storia della sua famiglia pubblicata dalla casa editrice aquilana Textus Fatti della casa de Marchis (2008).raccolti e ordinati da Giorgio de Marchis Bonanni d'Ocre nel suo settantacinquesimo anno di età

Matthew Barney_trasalimenti

Se uno non sapesse che Matthew Barney è stato campione di rugby, che ha un gran fisico dall’aspetto decisamente sano (ha fatto anche il modello), facilmente si sarebbe indotti a pensare che agisce sotto lsd, tanto il suo mondo visivo è fantastico, debordante, irrefrenabile. Una volta tanto, insomma, l’aggettivo visionario, che molto spesso e senza motivo si spende a proposito di artisti contemporanei, qui risulta assolutamente pertinente. E invece Barney, artista americano acclamato internazionalmente, che al talento e alla fama unisce anche il dato molto cool di aver sposato un’altra celebrità, ovvero la cantante Bjork, non solo non fa uso di droghe ma pare essere un tipo schivo, timido addirittura, che nutre e segue i suoi deliri onirici nella sua testa e basta.
Se ne sono accorti recentemente a Torino, dove Barney è arrivato su invito della Fondazione Merz per partecipare a un seminario con gli studenti dell’Accademia Albertina e aun convegno sulla filosofia dell’arte con Arthur C. Danto, eminenza grigia della materia, e dove ha allestito una mostra che per la prima volta dà l’occasione di vedere tutti insieme i film che l’hanno fatto conoscere al pubblico dell’arte: i cinque episodi del “Cremaster” e i dieci episodi dei “Drawing restraint”, allestiti presso la Fondazione torinese, in un eccentrico vis-à-vis con due opere di Mario Merz (fino all’11 gennaio).
Barney suscita sempre grande attrazione e, anche se non si è d’accordo con il suo mondo e la sua scelta stilistica – c’è chi lo trova geniale e basta e chi un geniale millantatore – non si può fare a meno di seguirlo nelle acrobazie mentali e visive che propone? “Perché la sua opera confluisce in una grande cosmogonia, onnivora e ibrida”, spiega la curatrice del progetto, Olga Gambari, che ha insistito perché una star del genere non calasse dall’alto sulla città, ma si incontrasse con il pubblico più giovane. E il suo immaginario decisamente estremo ha la forza di saldarsi “a un territorio fisico e umano”, conclude Gambari. Virtù non da poco che gli consentono di sciogliere in un continuum allucinato sublimi immagini di paesaggi, catastrofi che irrompono all’interno del magnifico Chrysler building di New York, improbabili e smisurati corpi di ballo che riempiono navicelle spaziali e piscine luccicanti, flash di città che si susseguono, evocazioni di personaggi reali e immaginari, dialoghi visivi con donne enigmatiche mentre lui si trasforma in fauno, in centauro, in creatura impossibile e tutti intorno si affollano altre immagini e altri personaggi altrettanto surreali e così via inventando. Questo, in estrema sintesi, l’impatto visivo ed emotivo che suscitano i cinque film di “Cremaster”, opera bizzarra fin dal titolo e nella struttura: il nome viene dal muscolo testicolare e la numerazione non è consecutiva, essendo usciti prima il tre e dopo l’uno e il cinque. Ed esagerata anche nella durata: il numero tre dura più di tre ore ed è quello che ha rischiato di mandare fallita la sua gallerista, Barbara Gladstone, che fin da subito diede fiducia a quell’ex campione sportivo che aveva il chiodo fisso di diventare artista.
I “Drawing restraint”, meno noti almeno in Italia, si basano per lo più sulle restrizioni che Barney si autopropone per disegnare: su una baleniera giapponese nel mezzo di una tempesta (era presente anche Bjork), appeso ad una parete da free climbing, imbragato al soffitto, saltando su un tappeto elastico, mettendo in bocca a un pesce (che poi vomita) un pennarello. Una sfida continua, insomma, un po’ per prepararsi alla grande sfida di “Cremater” un po’ perché l’arte, evidentemente secondo lui, vive nella tensione estrema tra possibilità e fattibilità. Dove spesso questi due universi si mischiano e che, dopo la “cura Barney”, non sono più distinguibili.

Willem De Kooning_trasalimenti



Willem de Kooning nasce a Rotterdam, e arrivarono negli Stati Uniti nel 1926 tramite Hoboken, dove ha lavorato come imbianchino. Dopo il suo trasferimento a New York l'anno successivo, l'artista divenne ben presto parte della vibrante scena artistica della città, forgia amicizie con artisti e critici come Arshile Gorky, Thomas Hess, Robert Motherwell e Harold Rosenberg. Nel 1963, de Kooning si trasferì a tempo pieno l'estremità orientale di Long Island, New York, una località rurale che significativamente influenzato la sua pittura da quel punto in avanti.